Immagine di Jacqueline Jamelin

Ragionamenti con Salvo Basso

di Salvatore Paolo Garufi Tanteri

La pratica dell’arte è la scelta di un punto di vista politico

1 – Perché si scrive un libro?

Non sono Sergio Corazzini, anche se, come lui, posso dire che non sono un poeta. Non sono neppure un intellettuale, non ne ho la patente. Avessi almeno i titoli per esprimere l’autenticità dei sentimenti popolari… Macché! La vera voce della gente la cercano con criteri che mi sfuggono. Non sono un politico, perciò; ed, al contempo, non faccio parte della società civile. Non sono manco politicamente corretto. In pratica, non ho, non debbo avere un mio punto di vista. Qui sta la chiave per capire la dittatura moderna. Giorgio Gaber cantava che la libertà è partecipazione, io vado oltre. Libertà è far concorrere il nostro con gli altri punti di vista con pari possibilità di affermazione. Ma, io, come quasi tutti, non sono nulla finché un addetto ai lavori non mi comunica cosa sono. Però, la differenza tra me e quasi tutti è che quasi tutti fanno mostra di non saperlo ed io no.

E nemmeno Salvo Basso.

Per comune destino della provincia, chi ha voce ma non abita dentro i sacrari dell’accademia o dell’editoria rischia di grattare le parole nella ruggine; rischia di scomparire dal mondo nel breve volgere del lavoro dell’imbianchino, insalutato ospite, inascoltato come una bestia abbandonata. Salvo Basso, comunque, ci provava troppo gusto coi sinuosi volteggi della sua mente, per non sperare che gli altri ci si divertissero almeno quanto lui. Sostanzialmente scrisse per questo, un rigo dietro l’altro, praticamente fino ad un minuto dalla morte. Chiarì tutto, fra l’altro, in una fotografia trovata fra le sue carte. Era una di quelle sue fulminazioni geniali che gli venivano spontanee come il respiro. Un giovanissimo Salvo sta seduto per terra nell’angolo in alto a sinistra, rannicchiato come un bimbo corrucciato. In basso a destra c’è una macchina per scrivere e sembra una provocazione beffarda.

“Provaci, se vuoi, a farmi scrivere cose interessanti” sembra dire la macchina. “Tu pensa… ed io registro le tue sciocchezze! Non sono mica Penelope. Se aspetto è per sfotterti, non per esserti fedele.”

Oppure, potrei paragonare la scena al momento culminante di un pessimo western. Uno dei due pistoleri dopo il duello sarà morto; ma la sua intera vita nei racconti verrà sintetizzata in quei pochi, drammatici istanti. Ignoro l’esito del duello tra Salvo (anzi, tra il punto di vista di Salvo) e la macchina per scrivere (cioè, lo strumento per esprimerlo). Ma, già lo scontro basterebbe per un racconto epico.

Ecco, quindi, il primo motivo per scrivere un gran libro: è la voglia di superare l’afasia che il mondo vorrebbe imporre a chi non nasce fra gli eletti. Anche se, aggiungo subito, i motivi per riempire quattro pagine sono tanti. Alla fin fine, si può scrivere un libro anche per suscitare reazioni opache e meschine.  Poco importa che si discuta di morale o di sesso.  In ambedue i casi può venir fuori l’intelligenza o la volgarità, dipende dall’autore.

Ovviamente, in questa sede per “volgarità” intendo la dimensione superficiale del gusto e del giudizio. Mi spiego meglio: la volgarità non dialoga con la mente altrui. Quando è brava, la volgarità al massimo in un comizio sollecita l’urlo del carogna, nell’orazione la mano del terrorista e nello scherzo il ghigno del qualunquista. Se volete, tra uomo e donna, la volgarità mette sempre un membro ipertrofico e senza intelligenza.

Molte (troppe) volte, invece,  sono stati scritti libri del tutto inutili.  In questa nostra valle di lacrime pare che ci sia gente che scrive e parla soltanto per far sapere che è capace di produrre parole.  Il novantanove per cento dei volumi che intasano le biblioteche pubbliche è nato così e rappresentano un’infinita noia per i disgraziati lettori.  In questo caso non c’è neppure volgarità, non c’è nulla.

I libri meritevoli sono appena l’un per cento e lo zero virgola cinquanta per cento viene dalle parti basse della natura umana, anche se portate alla dignità di un punto di vista. Vi trovi, infatti, concetti nuovi, o meglio nuove angolazioni per guardare il mondo.  Ma, trattasi di idee, come dire?… molto circensi.  Si esibiscono sui sottili fili dell’equilibrismo fonico, o mentale, più che altro per uno sfoggio di bravura fine a se stessa. Nella terra del barocco, come pretende di essere questo lembo di Sicilia che da Catania scende fino a Noto, queste idee dovrebbero essere le più apprezzate e ciò di già rappresenterebbe un male.

E’ peggio, purtroppo. La Sicilia (o, forse, la modernità) vive una forma di neo-medievalismo, fatto di luoghi comuni invariabili ed invariabilmente riproposti.

Eppure, in barba al novantanove virgola cinquanta per cento dei libri, è una buona cosa che ci siano i libri.  E’ una buona cosa che ci siano le biblioteche, le mostre e i cataloghi d’arte, le serate teatrali e quelle musicali.  E’ una buona cosa perché seppellito nel ciarpame ci sta quello zero virgola cinquanta per cento di lavori interessanti, capaci di donare la felicità, se per felicità intendiamo il sentimento di esserci e di restarci, in questo mondo cane.

Aggiungo che, qui arrivati, forse diventa riduttivo parlare soltanto di libri, o considerare soltanto i generi canonizzati (la pittura, la musica, l’architettura, e così via). Anche perché non certamente fra i canonizzati furono i generi praticati da Salvo Basso. Egli era bizzoso ed atipico.  Atipico persino nel linguaggio, dato che in lui il siciliano (lo scordiense moderno, per essere più esatti) fu veicolo dottissimo. Era il sistema più adatto per raffigurare straordinari scarti intellettuali, che scardinavano il comune punto di vista, per poi aprirsi ad orizzonti più vasti. Erano lampeggiamenti sul buio, i suoi. Angoscia ed ebbrezza aspettavano chi, leggendolo, lo seguiva nell’avventura.

In altra sede mi è toccato e mi toccherà ancora di spiegare le sensazioni datemi dalla poesia ortodossa di Salvo, quella che si affidava alla normalità del verso, confinando la divina eresia dei poeti negli accostamenti realizzati con sfumature semantiche.  In altra sede spero di parlare ancora di lui.  Parlerò ancora di lui finché Dio (o il caso, che è il nome che a Dio danno gli atei) vorrà farmi vivere.  Allora ci sarà occasione di perdersi nei meandri delle metafore, delle allitterazioni, degli anacoluti rivelatori.  Oggi mi interessa occuparmi del fotografo Salvo e  lo chiamo per nome, perché il fatto che è morto e che era un poeta non toglie la realtà che è stato il primo dei miei amici.  Lo chiamerò Salvo, perché questo, se volete, è un saggio di filosofia che viene su come una sorta di conversazione tra me e lui. Qui sta, da sempre, la forza degli scrittori veri: il cannibalizzarsi lungo fogli di carta, per rivivere l’uno nell’altro.  Voglio che un po’ scriva anche lui con la mia penna. Magari con qualche battuta sfottente, com’era il suo solito; e magari con quella delicatezza d’animo che lo rendeva tanto vulnerabile rispetto alle miserie di ominicchi, ruffiani e quaquaraquà.

Così, fuori dalle seriosità accademiche, con le fotografie di Salvo, tra l’altro, potrò dire che siamo arrivati a quell’ultimo e migliore motivo per cui si scrive un libro.

Le sue immagini, infatti, hanno più a che fare con i concetti che con la mera visività. Anche se riescono a costruire campi di eccezionalmente equilibrata purezza cromatica, quasi continuazione o ideale completamento dell’opera di Piet Mondrian.

Gli basta, per esempio, una campitura azzurra, sulla quale poggia un foglio grigio; sul foglio una striscia di carta argentata; oppure, infilzare col rosa di una penna una specie di arnia beige. Sono veri e propri quadri, magari nati da tecniche esecutive che hanno assimilato la lezione del collage; ma, messe insieme, queste immagini costituiscono pure un libro, né più né meno.  Le fotografie di Salvo, al di là di ogni sua stessa ammissione, esistono perché egli aveva qualcosa da dire, o almeno da comunicare.  Proprio come ora, mutando ciò che c’è da mutare, scrivo per interpretare ed esplicitare con parole facili e chiare il miracolo grazie al quale gli  oggetti fotografati diventano fonte di emozione.  Questo è il compito dei filosofi, o almeno degli insegnanti di filosofia.

E’ vero che, coi tempi che corrono, il mio lavoro non è socialmente molto apprezzato.  La barbarie domina ovunque e non sarebbe vera barbarie se non fosse invadente, arrogante, totalitaria.  Un mondo siffatto, fra l’altro, è abitato da gente che non ce la farà ad essere felice.  Chiarisco: c’è chi la felicità la cerca nell’amore, chi nei soldi, chi nel potere, chi nel tentare di far comprensibili la natura e i comportamenti umani.  Non saprei dire quale sia la scelta migliore.  So che l’ultima è la scelta della razza umana a cui Salvo appartenne.  E non è la più facile.

Tale scelta oggi passa a me. Si ripropone con le fotografie di Salvo, anzitutto definendo l’argomento.