Salvatore Paolo Garufi Tanteri, “Ragionamenti con Salvo Basso”, Seconda parte

II – Il falso della memoria

Prendendola alla larga, rispondo ricordando Theodor Mommsen, che scrisse la Storia di Roma più bella di tutti i tempi.  Fu bravo soprattutto perché dal suo libro tirò fuori delle conclusioni generali.  Roma, scrisse Mommsen, diventò un impero per questo e quest’altro motivo.  Egli, cioè, ci dette un giudizio (o, se si vuole, una lezione di vita).  Purtroppo non mi pare che attualmente la sua posizione sia diffusissima.  Lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan ebbe a dire che i moderni studiosi, più che studiosi, sembrano dei magazzinieri.  Essi si limitano a registrare dati sicuri: la misura delle opere, la data di esecuzione, i documenti connessi.  E’ questo il difetto contemporaneo della trasmissione culturale, tutta improntata sulla logica mass-mediale delle guide turistiche. E, purtroppo, “il pericolo dei mass-media è precisamente che portino alla soppressione dell’atto mentale del giudizio“ (Giulio Carlo Argan, Intervista sulla fabbrica dell’arte, Bari, Laterza, 1980, p.63).

D’altro canto, dopo Karl R. Popper, la mera raccolta di dati non costituisce metodo neppure nella ricerca scientifica.  Jean Lukasiewicz addirittura arriva a sostenere:

“E’ un vero scienziato soltanto colui che sa come unire i fatti in una sintesi.  E per far ciò non è sufficiente conoscere i fatti; è necessario anche il contributo del pensiero creativo” (in Selected Works, London, 1970, p.1).

Lo so. Mi si dirà che sotto la parola creatività c’è il rischio che trovi riparo l’approssimazione dilettantesca e l’errore.  Ma, dove non ci sono rischi non ci sono eroi e neppure geni.  Quando da uno studio si traggono conclusioni molto ampie è facile dire sciocchezze e finire nell’inferno del ridicolo.  I mestieri più affascinanti, però, sono pure i più rischiosi. “L’interrogativo degli europei è: come avviene che compaiono certe idee particolari?  Per gli americani, invece, la domanda è la seguente: in che modo queste idee, una volta introdotte, influiscono sul comportamento?” (Robert K. Merton, Teoria e struttura sociale, Vol. III, Bologna, Il Mulino, 1971, p. 811).

Il che lo portò a concludere che la differenza sta nel fatto che la sociologia europea rischia ed è sicura di dire cose importanti, senza sapere fino a che punto siano vere; la sociologia americana non rischia e dice cose certamente vere, ma non sa fino a che punto siano importanti.

Ecco, mettiamola così.  Diciamo che in questo Salvo fu molto europeo.  Fin da ragazzo giocò sulla rapidità delle sintesi, più che sulle sottigliezze analitiche.  Il rapporto immagine/significato, per esempio, costituì nei suoi primi esperimenti poetici il mezzo nuovo per riproporre l’antichità della metafora.  C’erano ampi spazi squarciati dalle parole, come a dire che la voce stenta a maculare il vuoto dell’esistenza.  In ciò, da sempre, consiste l’illusione del poeta, questo titano ridicolo, neppure decorativo nella società d’oggi.

Salvo volle navigare nel mare aperto dell’avanguardia, per letteratissima sensibilità e non per barbarie antitradizionalista. Non sapeva, insomma, se diceva cose vere; ma, davvero era convinto di dire cose importanti. Come si può, quindi tentare di applicare con lui la cosiddetta critica scientifica?  Per fulminazioni ci squadernò la sua vita sotto gli occhi, per fulminazioni si può tentare di capire lui.

Ce lo dice, beffardo come sempre, in una fotografia un po’ iperrealista. Vi si vede una bocca aperta in un sorriso. Anzi, vi troviamo un sorriso che s’è scavato uno spazio fra le guance e dietro il quale, come in un taglio di Lucio Fontana, sprofonda il nero, al di là della bocca. I denti si mostrano per allegria, forse. O, forse, per essere pronti a mordere. A me pare, però, che in quella fotografia i denti stiano come esempio di materia consistente, tra il flaccidume della faccia ed il vuoto abissale della gola.

Egli, d’altra parte, era affascinato dalle possibili sfumature del nero. Ricordo un nostro viaggio a Venezia. Visitavamo la fondazione Guggenheim e davanti al taglio sulla tela di Lucio Fontana disse:

“E’ straordinario scoprire questa nuova dimensione del nero.”

“Cioè?” io chiesi.

“E’ la sfumatura giusta” rispose. “E soltanto così si può ottenere.”

“C’è il rosso di Tiziano e c’è il nero di Fontana, insomma!” io dissi.

“Appunto” disse Salvo.

Trovai molto innovativo questo suo mettere a paragone arte contemporanea ed arte classica sul terreno dell’arte classica. Credo pure che fosse poco giustificato sul terreno della critica scientifica. C’è forse un critico, però, che mi possa disapprovare perché ebbi la sensazione di aver sentito una cosa importante?