Dipinto di Santo Marino

La gramigna massonica

di Salvatore Paolo Garufi Tanteri

Al visitatore che si avventura nelle curve che da Scordia salgono a Militello si apre subito uno scenario surrealista. Una foresta di simboli parla della vita della gente che vi abita. Vedi la pietra calcarea sotto il peso del sole, vedi il groviglio dei rovi scortesi e disseccati, vedi le boscaglie di fichidindia polverosi ed opachi, vedi sui muli e sotto gli alberi i contadini piegati dall’imperio di un lavoro senza gioia e senza futuro. Ogni curva è cieca come il destino ed il sole sugli occhi ti dimostra che la luce, molto meglio dell’ombra, sa nascondere il paesaggio. In autunno verrà, poi, un po’ di pioggia. Allora, sarà  la sterpaglia che, prima di marcire nella terra, riacquisterà rossori adolescenziali.

Come gli sterpi, per il breve volgere di alcuni anni, a Militello le piccole dinastie di potenti avevano dominato il paesaggio. Da tre secoli e mezzo, dopo che i feudatari erano andati a vivere in città, esse erano costituite da funzionari, cioè il potere presente sul luogo, cioè il vero potere. Nel Seicento comandavano i Russo, divenuti baroni della Nicchiara per meriti professionali. A questi erano subentrati i Majorana, che s’erano presi pure il loro titolo. Subito dopo, in lotta contro di loro, era spuntata la famiglia dei Natale.

L’affermarsi di questa nuova classe dirigente era stato favorito dalla ricostruzione, venuta dopo il terremoto dell’11 gennaio 1693. In pochi minuti erano andate giù la navata centrale e la navata di sinistra della vecchia Santa Maria della Stella, portando via con loro tutto il lato nord del castello normanno. Era rovinata per intero la vecchia chiesa di San Nicola. Erano rimasti sbilenchi, o danneggiati, i monasteri di San Domenico, di San Leonardo, di San Francesco e della Madonna degli Angeli, oltre ai monasteri femminili di San Giovanni e di Sant’Agata. Avevano retto bene, invece, la chiesa del Purgatorio, la chiesa di Sant’Antonino ed il maestoso complesso della chiesa e del monastero di San Benedetto. Nell’insieme, in breve, la città aveva visto andare fuori uso quasi trenta luoghi sacri, senza contare le cappelle private e le chiesette di campagna.

Era stato un colpo micidiale anche per l’economia e per gli assetti sociali del tempo. Infatti, il clero della controriforma non si limitava alla recita dei rosari ed a impartire battesimi ed estreme unzioni. Esso, piuttosto, rappresentava un’organizzazione per mantenere il controllo della città: i cappuccini si occupavano dei popolani, i domenicani con la loro predicazione formavano la morale comune, gli agostiniani curavano l’istruzione, i benedettini gestivano una vera e propria impresa agricola, i monasteri femminili si erano specializzati nei lavori domestici e davano asilo alle orfanelle.

Ciò aveva reso necessario un gran fervore nella ricostruzione. Le professioni, perciò, sempre meno ristrette nelle corti dei principi, avevano acquistato nuove consapevolezze ed avevano cominciato la loro ascesa nella considerazione pubblica. Vincenzo, quindi, era il rampollo di una dinastia del potere locale, che aveva legittimato la sua condizione col prestigio intellettuale del capostipite, Vincenzo Natale il Vecchio (1720 – 1760), medico lodato per l’ottima preparazione professionale e per il notevole interesse per la scienza, attestato dalla ricca biblioteca.

La via di Militello in cui, il 16 giugno 1781, nacque il nostro Vincenzo oggi volgarmente viene chiamata a chiazza lurda, la piazza sporca. Questo perché, fino a qualche decina di anni fa, la presenza di alcuni fruttivendoli comportava il lento putrefarsi per terra di foglie di broccoli, pomodori, gambi di carciofi, cartacce, cassette di legno, cacca e piscio di cavallo e quant’altro è possibile immaginare in termini di afrori.

Allora, ai tempi del Natale, la vita non aveva ritegno ad invadere i nasi. Si potevano persino riconoscere le stagioni dagli odori. L’estate davanti alle case aveva quelli dei peperoni arrostiti e delle melanzane fritte. Verso il finire, poi, prendevano il sopravvento gli aromi dei pomodori e dei fichi, messi a seccare al sole su piattaforme di canne. Ad ottobre era il momento in cui si aspirava la mostarda di ficodindia. E, dopo, l’autunno s’inoltrava dai frantoi, dai trappeti, dalle bisacce sul dorso dei cavalli, degli asini e dei muli con gli effluvi del mosto e dell’olio nuovo. L’inverno profumava di arance (persino nel presepio se ne mettevano); ma, era l’incenso delle salsicce e del lardo che sfrigolavano sui bracieri che comunicava la festa. Infine, la primavera veniva con l’allegro scampanio della Pasqua e si inalavano le frutta, le verdure, le frittate, il mais abrustolito, le insalate bagnate dal verde intenso dell’olio crudo.

Neppure delle salite si aveva paura, allora. Le strade si allungavano man mano che la gente costruiva. E siccome la tendenza era di inerpicarsi sulla collina, anche le strade si inerpicavano, come a cercare l’aria. Così, da quelle ripide discese i carretti ed i carrioli vivacizzavano la vita col rumore delle ruote saltellanti sul basolato. Rumori che s’intrecciavano come voli di rondini con le grida dei venditori e dei monelli.

Sembrerebbe, però, che Vincenzo, come la dea Minerva, fosse nato già bell’e fatto, dato che c’è una spessa coltre di silenzio sulla sua infanzia in quel quartiere popolare. Magari, avrà combinataqualcuna delle marachelle tipiche dell’età e del posto. Che ne sappiamo… avrà rubato i fichi nei campi; avrà bersagliato i ragazzi degli altri quartieri, durante una delle tante timpiate, che erano delle battaglie a colpi di pietre; avrà occhieggiato le abbondanze delle lavandaie al fiume Lembasi.

In verità, ne dubito e mi dispiace per lui. So, comunque, che a scuola si era fatto subito apprezzare per la sua intelligenza (da qui, il mio dubbio di prima).

Vincenzo ebbe due fratelli minori, Felice (nato nel 1785 e morto nel 1861) e Sebastiano (nato nel 1801 e destinato a morire giovanissimo); e tre sorelle, Cristina, Giuseppa e Maddalena. Di nessuna delle tre ci si è curato di tramandare le date di nascita e di morte. A quei tempi il femminismo non esisteva.

Incontreremo ancora il fratello Felice, più avanti. Per ora, è sufficiente dire ch’egli fu molto diverso da Vincenzo, persino nell’aspetto fisico. Questi era di media statura, con uno sguardo acuto, il naso stretto e le labbra sottili. Era, inoltre, fine nel portamento, con un non so che di notarile e di marchesotto e benestante settecentesco..Felice, invece, aveva una figura possente, tanto da essere soprannominato Re di Prussia. Al vistoso vigore fisico, però, non corrispondeva un’adeguata forza intellettuale.

I ricordi su di lui si concentrarono soprattutto sul servo dallo sguardo ebete che lo seguiva, montando una giumenta baia, e sulla cavalla storna, sopra la quale si recava fiero nelle sue proprietà, poste nella parte orientale della contrada Santa Barbara. Il fondo sul nostro esame caduto, così localizzava le proprietà di Felice l’architetto Giuseppe D’Agata in una perizia del 1843, per il frazionamento delle terre del monastero di Sant’Agata, è sito alla banda meridionale e orientale del Comune di Militello. Gli dista circa un miglio. Nomasi S. Barbara. Viene circoscritto da pubbliche trazzere e da fondi di Maria SS.ma, del Convento di S. Domenico di Militello, di D. Giuseppe Ricotto ed altri censisti per tramontana e ponente, da una tenuta di D. Alfio Campisi per Oriente e da diversi fondi di D. Felice Natale…

In pratica, dunque, egli non uscì mai dal cliché del possidente siciliano ottocentesco. Sposò Franca Reforgiato, sorella di don Vincenzo, massimo esponente di una famiglia prima massonica e poi carbonara, fra l’altro da sempre alleata dei Natale.

Un particolare affetto Vincenzo lo provò per l’altro fratello, Sebastiano, spentosi immaturamente nel 1822, probabilmente perché ammalato di tisi.

“Sebastiano va meglio” scriveva Vincenzo al padre, da Catania, il 3 novembre 1821, “sia per la cura sia per l’aria. I medici però tutti convengono che deve sfuggire il freddo e l’umido. Non è quindi possibile che per questo inverno ritorni in Militello.”

Ma, pare che Sebastiano non la pensasse affatto come lui, dato che a sua insaputa aveva chiesto delle vetture per tornarsene al paese. E la cosa non è liquidabile come puro capriccio. Credo, invece, che avesse chiara coscienza della inevitabilità della fine. Era di troppo viva e troppo precoce intelligenza, se già a dodici anni aveva una buona preparazione nelle lingue e nelle letterature latina, greca, italiana e francese. A sedici anni appena, poi, aveva realizzato un sunto del sistema di Linneo e nella chimica aveva avuto un premio dall’Università degli Studi di Catania, per voto del celebre prof. Maravigna.

“Egli è ora nel punto di guarire” scriveva ancora al padre un non rassegnato Vincenzo, il 22 di quello stesso mese, “o di perdersi, è migliorato ma di tanto in tanto lo visita la febbre, e la tosse; dunque il morbo prosegue, né si è impinguato; la sua risoluzione di partire è follia, e contro il parere dei medici, fra i quali il Calvagna, che suppongo il migliore in Catania.”

In verità, ci potrebbe essere anche un’altra motivazione, per spiegare tanta incosciente insistenza da parte di Sebastiano, nel volersene tornare nella nebbiosa Militello: quella ch’egli fosse un medico molto attaccato al suo lavoro.

“A’ giorni nostri” dirà Vincenzo, ricordandolo alcuni anni dopo, “un medico avrebbe avuto Militello da non farci invidiare le altre città principali. Sebbene morto ad appena vent’un anni, ebbe assai prima allievi e in medicina e in chimica, che ne sono oggi professori in Militello.”

Ancora adolescente, infatti, si era laureato in medicina ed aveva dato tali prove della vastità dei suoi interessi, da meritare l’amicizia del famoso conte Brocchi, a cui aveva fatto visitare i dintorni del suo paese ed il lago di Naftia.

Molto più ritirate furono le sorelle, che si mantennero all’interno delle condizioni di vita della classe dei possidenti.

La maggiore, Cristina, fu monaca clarissa, uscendo, poi, dal chiostro in cui si era ritirata.

Giuseppa sposò un benestante di Licodia Eubea, dove andò a vivere. Dovette essere persona molto affezionata alle cose di famiglia, stando alla notizia della sua acquisizione di un’eredità dei Natale a favore dei cugini Baldanza, da questi rifiutata per i troppi legati che la gravavano.

Maddalena, infine, sposò il professionista Giacomo Tamborino di Mineo.

Nel tempo in cui Vincenzo venne al mondo la Sicilia conosceva grandi novità, grazie all’opera del viceré Domenico Caracciolo e del suo successore, il massone Francesco Maria d’Aquino, principe di Caramanico. Essi erano i politici ammirati da don Alfio Natale ed ogni sua parola si rifaceva alle loro idee, come spiegò al figlio, il giorno in cui decise di ammetterlo nella massoneria.

Erano nella libreria della casa di Militello, una stanza a pianterreno, indipendente dal resto della casa, dove don Alfio riceveva clienti e massari. Il locale era ampio e godeva di una certa frescura d’estate, mentre d’inverno per riscaldarlo bastava un piccolo braciere. Per questo, egli vi passava la maggior parte delle ore, studiando e scrivendo. Amante della tranquillità, l’uomo non permetteva a nessun familiare di entrarvi. Soltanto la vecchia domestica poteva andarci, verso le otto del mattino, per un po’ di pulizie. Ovviamente, l’ordine tassativo era di non toccare carte, o libri sparsi sul lungo tavolo. Quindi, il fatto che Vincenzo, in quella fredda mattina di febbraio, vi fosse stato ammesso era un grande privilegio. Fuori, c’era una pioggerellina fine, che picchettava il vetro della finestra e sfocava i passanti chiusi nei loro mantelli neri. Don Alfio ravvivava la carbonella nel braciere posto sotto la finestra, mentre Vincenzo stava seduto a guardarlo.

“E’ un mistero” disse. “Sono ancora in tanti a non capire il perché a Napoli abbiano voluto costringere Caracciolo, che non ne aveva alcuna voglia, a lasciare Parigi per venire in Sicilia.”

Andò allo scaffale dei libri. Senza alcuna apparente premura, trasse fuori un volume. Era un Seneca. Vincenzo lo riconobbe dalla rilegatura in marocchino rosso con le scritte dorate. “Pensa che le resistenze furono tali che Caracciolo si decise a lasciare Parigi un anno dopo la sua nomina. Giunse a Napoli nel giugno 1781, proprio mentre nascevi tu, e sbarcò a Palermo nell’ottobre successivo.”

Trasse fuori dal libro una serie di fogli, alcuni dei quali ingialliti dal tempo. “Senti come si esprimeva col mio e suo amico Ferdinando Galliano. Sono parole ch’egli mi ha trascritto per permettermi di portare a termine la storia delle riforme in Sicilia, a cui lavoro da anni: Eccomi, caro amico, relegato “sur des arides bords de la sauvage Sicilie”, e sono occupato “toto marte” a procurare il bene pubblico. Ma incontro difficoltà grandi e “des entraves” ad ogni passo, forse le più forti derivano da un vizio di governo.”

Posò i fogli sul tavolo. “Il vizio di governo, figlio mio! Capisci perché è nata la massoneria? Bisogna superare il vizio di governo, mettendo finalmente al posto giusto gli uomini giusti. Da principe dei lumi qual era, Caracciolo si diede subito da fare per abbattere gli antichi simboli della superstizione, a partire dal tribunale dell’inquisizione. Così, meno di un anno dopo poté comunicare le sue novità a D’Alembert, come, ancora, l’amico Galliano ha trascritto dal Mercure de France…”

Riprese in mano i fogli e uno lo mise in cima agli altri. “E’ datata 27 marzo 1782… Je me riserve à la fin, pour la bonne bouche, de vous dire, avec un peu de vanité de ma part, l’abolition de l’Inquisition: le jour 27 du mois de mars, mercedi saint, jour mémorable à jamais dans ce pays, pour le roi Ferdinando IV, on a abattu ce terrible monstres.”

Si avvicinò al figlio, solennemente. “E, finalmente, passò al denunciato vizio di governo. Mise mano allo smantellamento del regime feudale. Cercò, in pratica, di levare quanta più terra poteva al clero ed al baronaggio e favorì un’agricoltura libera dai legami del vassallaggio. L’impresa apparve subito delicata, difficile, rognosa…”

Più di quarant’anni dopo, un ormai anziano Vincenzo Natale si ricordò dei giudizi che suo padre aveva espresso sul governo del viceré Caracciolo. Volle aggiungervi, perciò, una vivida rappresentazione dell’epoca, mettendola per iscritto in una lettera indirizzata al principe di Granatelli:

“I tempi del buon Gregorio erano pieni più che mai di sospetti, e stava quegli come suol dirsi tra l’incudine e il martello, baroni e Governo. I baroni, ancorché abbassati dal Caraccioli (sic), non perciò lasciavano di essere potenti, e di avere somma influenza. Lo stesso Caraccioli scrisse al D’Alembert: ho domato la superstizione, e la feudalità, ma sento che questa bestia già mi morde la mano. Il Gregorio scriveva in mezzo a queste ire per obbligo di cattedra e vivea di tale appuntamento. Non avea via di mezzo, o di stare sui riguardi, o di morire per lo meno di fame; non dico di marcire in carcere, come indi a poco cominciò a giuocarsi, dacché fu stampata la sua introduzione. Né potendo trattar bene i baroni, fu necessità di farsi dalla parte del Governo, che che avesse pensato dell’antico. Buono dunque fu il suo animo, il so per prova, perché io ancorché troppo giovane spesso lo avvicinava. Scinà, suo censore, che fu pure suo discepolo, lo trattò con somma ingratitudine, vivo e morto, senza badare al proprio sentimento, che fece chiaro in tutti i suoi scritti, e più di ogni altro nel secondo periodo dell’antica letteratura siciliana. L’articolo morale non era fatto in buona coscienza per Scinà, se vogliamo far valere il sublime amor del vero, né potea essere giudice competente.”

Ma, quando aveva ascoltato suo padre, per come erano andate le cose, Vincenzo aveva visto soprattutto la necessità di costruire una struttura di potere siciliana, che fosse forte abbastanza da riuscire a battere gli antichi privilegi: la massoneria appunto.

“Purtroppo” aveva, infatti, concluso don Alfio, “Caracciolo poté avvalersi soltanto di collaboratori napoletani. In Sicilia il lavoro era ancora tutto da fare e la provvidenza volle che, andato via Caracciolo, come viceré venisse il principe di Caramanico.”

Il racconto sulla massoneria che don Alfio Natale fece a suo figlio fu troppo lungo, per cui è meglio riassumerlo (fermo restando il diritto del lettore a chiuderla qui).

Le prime logge di cui aveva notizia, disse più o meno don Alfio, risalivano al 1754 ed operavano sotto l’autorità della Loggia di Marsiglia. Nel 1760 esse ottenevano una nuova Costituzione dalla Gran Loggia d’Olanda. Ma, appena sette anni dopo, passarono al rito inglese, finché non si deliberò di costituire una Gran Loggia Nazionale dello Zelo a Napoli. Questa, a sua volta, costituì quattro nuove Logge: della Vittoria, dell’Uguaglianza, della Pace e dell’Amicizia. Confermò, inoltre, due Logge dipendenti, una a Messina e l’altra a Caltagirone. In seguito, nacquero anche le logge di Catania e di Gaeta.

Da subito, sottolineò Alfio Natale, la storia della massoneria borbonica si era intrecciata con gli intrighi di corte. Così, contro queste logge, il 10 ottobre 1775, era stato emesso un editto, che ne richiamava un altro precedente del 1751, ispirato dal primo ministro Tanucci. Nel documento la Giunta di Stato ordinava di procedere come nei delitti di lesa Maestà, anche ex officio, e colla particolare delegazione e facoltà ordinaria e straordinaria “ad modum belli”.

La minaccia, però, non aveva preoccupato più di tanto la fratellanza massonica. I suoi capi erano collocati troppo in alto nella gerarchia di corte, arrivando alla stessa Regina Maria Carolina. Infatti, in cima alla piramide, alla guida della Gran Loggia Nazionale dello Zelo, ci stava il principe di Caramanico, molto vicino alla sovrana.

Se, quindi, Maria Carolina poteva contare sui massoni guidati dal Caramanico e dal Duca di Sandemetrio Pignatelli, di contro erano nate due Logge a lei ostili e quella, dichiaratamente nemica, del principe di Ottajano. Ne dava un’idea un manifesto del 7 dicembre 1775: Precisiamo ancora che in questa città si trovano anche due Logge irregolari, che non sono state da noi mai riconosciute. La ragione è d’una parte perché non sono state costituite in concordanza con i veri principi dell’Ordine, volendo essere governate da Superiori esteri, d’altra parte perché nel nostro paese sono atte piuttosto ad ostacolare i veri scopi, i loro membri essendo esclusivamente delle persone che consideriamo indegne di essere da noi accettate. Oltre a queste due, vi è in quest’Oriente ancora una Loggia piccolissima e completamente degradata, sotto la guida del Principe di Ottajano, il quale, pur essendo stato iniziato da noi, in seguito si è lasciato trascinare dal falso orgoglio di voler essere alla guida di una Loggia. Attraverso diversi maneggi egli ha carpito una Patente dal Duca di Lussemburgo, il quale alcun tempo fà era qui presente, quale Grand Administrateur Général delle Logge francesi (…) Egli ha cominciato i suoi lavori irregolari con alcuni Francesi e Napoletani, e persiste tuttora, malgrado il fatto che il Duca di Lussemburgo stesso, dopo aver avuto conoscenza della vera natura delle circostanze, ha riconosciuto la nostra autorità, ritirando la Costituzione da lui concessa. In conseguenza consideriamo la sua Associazione come una Loggia irregolare.

In un clima simile, per mettere nei guai i massoni vicini alla Regina, il 2 marzo 1776 fu organizzata nella villetta Marselli di Capodimonte la finta iniziazione di un nobile polacco (in realtà un servo, al quale era stato promesso un compenso di 200 ducati). Sul posto si erano ritrovate dieci persone, due delle quali non massoni, sei massoni irregolari e due massoni regolari (il professore di matematica Felice Piccinini ed il grecista Pasquale Baffi).

Al cominciare dei travagli, la dimora era stata circondata dalla sbirraglia, al grido di Viva il Re! ed i convenuti erano stati arrestati e portati nella Casa del Salvatore. Veniva, poi, redatto un curioso conto delle spese dell’operazione, destinato al primo ministro Tanucci, datato 30 marzo 1776: Per l’incarico comunicatomi da V. E. à voce, rapporto a’ Liberi Muratori, dalli 28. del mese di Gennaio à tutto li 2. Marzo cadente, giorno della sorpresa della Loggia sopra Capodimonte, si sono spesi Docati trecento cinquanta Sette, e grana 40. E successivamente dalli 3. Marzo a tutto li 29. detto per mantenimento de’ soldati destinati alla custodia de’ Carcerati nella Casa del Salvatore, e per spese diverse, come di carboni, olio, maniglie di ferro alle stanze, funi, cati, ed altro, per mano di Carlantonio Vittoria Capitano della Giunta di Stato, come dalle note, si sono spese Docati Sessantasei e grana 92. E per vito (sic)  ai Carcerati, che sono al numero di nove, dal di 3. Marzo per tutto li 19. detto, si son pagati al Trattore Docati sessantadue e grana 89.

Nel processo contro gli arrestati il Principe di Caramanico e Diego Naselli (anch’egli vicino alla Regina) avevano usato le loro amicizie per arrivare ad una sentenza mite. La difesa, inoltre, era stata affidata al brillante avvocato Felice Lioy, della Gran Loggia Nazionale. Così, la causa aveva preso una svolta sorprendente: l’accusatore, un certo Pallante (quello della sopra riportata nota delle spese), era stato incriminato di messa in scena e, 1’11 marzo 1777, i prigionieri erano lasciati liberi. Pallante era caduto in disgrazia, ed addirittura il ministro Tanucci era stato messo in pensione. Per la verità, però, anche Lioy se n’era misteriosamente scappato, recandosi a Vicenza, dove aveva conosciuto e sposato la figlia del Gran Cerimoniere Francesco Modena, della Gran Loggia di Venezia.

Da parte sua, il gran maestro principe di Caramanico aveva fatto una formale abiura della massoneria, cosa per lo meno poco credibile, per uno che aveva avuto tale nomina a vita. Infatti, nel 1791, mentre era viceré di Sicilia, il suo nome compariva sulla lista dei sospetti, insieme a quello di due dei suoi figli. In quegli anni, infatti, la regina Maria Carolina era ormai diventata reazionaria e fisicamente vicina a un nemico di Caramanico, il mercenario inglese, ministro della guerra, lord Acton.